Ci facciamo due chiacchiere su questa panchina? L’autunno, i colori delle foglie fanno venire voglia di sedersi e parlare un po’. Al momento non ho la voglia e le competenze per parlare di quello che sta succedendo a livello economico, politico e sanitario in questo momento così straordinario, mi limito ad ascoltare quelli che (mi sembra!) ne capiscono più di me e che sicuramente hanno migliori strumenti a disposizione. Per il resto aspetto, cercando di mantenere lucidità e attenzione.

Però su quello che riguarda il mio lavoro qualche osservazione comincio a farla, con l’obiettivo di non far passare troppo tempo dalla sperimentazione reale e magari raccogliere esperienze di altri: mi sento in esplorazione di un mondo nuovo in movimento da inizio marzo, sono cambiate rapidamente e incessantemente modalità e regole, le persone e le organizzazioni hanno prima sospeso ogni azione e poi cominciato a fare sperimentazione. 

Vediamo cosa ha funzionato e cosa decisamente no, proviamo ad aggiustare il tiro. Meglio se lo facciamo insieme: 2 occhi vedono bene, 4 (o 40) molto meglio.

Mi prendo cura di persone e di organizzazioni, facilito l’apprendimento di singoli e di gruppi, faccio formazione e coaching individuale, aiuto le persone a trasformare comportamenti o punti di vista che non funzionano più: questo è lo spazio del mio intervento e della mia esperienza. 

Il cosa per me non è cambiato ma il come si, tanto.

Nel mio lavoro serve la presenza, non è possibile farne a meno…anche se fisicamente siamo a distanza è necessario essere presenti, anzi davanti al computer (o tablet, o smarthphone o telefono) serve ancora di più esserci ed essere in noi stessi.

Il lavoro individuale per me funziona quando il professionista è allenato a utilizzare gli strumenti informatici, a sentire e a cogliere anche tutti i non detti: è un lavoro di intenzione e intuizione, difficile forse da spiegare a chi non lo ha mai provato ma che funziona. 

Nella mia esperienza serve trovare uno spazio che tuteli la privacy, sentirsi a proprio agio nell’ambiente, non consentire interruzioni, avere carta e penna a disposizione ma soprattutto la voglia di mettersi in discussione e di lavorare al di là delle situazioni in cui lo si fa. 

La motivazione profonda alla trasformazione è determinante in ogni lavoro individuale ma in questo periodo e con le limitazioni a cui siamo sottoposti è strategico: personalmente ho visto in questi mesi fare degli enormi “scatti di crescita” nonostante il momento, o forse proprio grazie alle difficoltà da parte di chi era pronto a lasciare il vecchio per abbracciare il nuovo. 

Per quanto invece riguarda la formazione si è per prima cosa trasformato completamente lo spazio in cui svolgo le mie attività: in questi nove mesi siamo passati da aule di formazione composte da un massimo di 12 persone, ospitate fisicamente in azienda, a rimandare e poi spostare online quasi tutto con rarissime eccezioni. 

Abbiamo modificato  programmi e modalità di gestione per tutelare il più possibile l’efficacia e il senso di questi interventi. E’ stato ed è un lavoro continuo di sperimentazione, creatività, aggiustamento continuo con i partecipanti, i committenti e spesso con gli enti di finanziamento della formazione aziendale, però continuiamo a farlo perché sappiamo che questi interventi possono davvero fare la differenza per le persone coinvolte e perché è il nostro mestiere, ci piace farlo al meglio. 

In questo percorso di esplorazione ho scoperto molte cose.

 

  • Essere davvero presenti nella relazione vince sempre: sulla presenza fisica, sulla vista, sugli strumenti, sul controllo. Con buona pace di certi capi e manager che vogliono verificare ogni piccolo passaggio, oggi paga la gestione dei leader che si fidano e creano fiducia. Nei team e nella formazione. 
  • Essere motivati aiuta a superare qualsiasi ostacolo di strumentazione tecnologica, se invece sei obbligato o non del tutto interessato alla formazione anche un piccolo impiccio diventa un impedimento enorme: siamo nel mondo della relatività! 
  • Condividere la responsabilità e co-condurre davvero l’aula porta risultati incredibili: l’attivazione delle persone è davvero interattiva, si prende e si dà parola (con tutti gli strumenti: chat, dialogo, foto, disegni…vale tutto), tutti diventano padroni di sé e del proprio esserci, soprattutto quando l’ambiente è così incerto.
  • Ritmica diversa dall’aula tradizionale: ebbene no, non ha senso fare 4 o 8 ore di fila di formazione, anche se i fondi di formazione non sono d’accordo perché diventa difficile monitorare la didattica, la verità è che dopo due ore al massimo di collegamento hai bisogno di tornare al corpo (e in te stesso), per permettere alle parole di radicarsi nel cervello. Al contrario torniamo nell’intrattenimento ma mi sembrava l’avessimo superato, soprattutto non mi risulta  di essere pagata per far passare il tempo con me ma per imparare qualcosa di nuovo: perché dovrei fare qualcosa che so in anticipo che non funziona? Soprattutto con tutte le scoperte neuroscientifiche di questi ultimi anni? Spero che i sistemi non si rivelino troppo rigidi per un momento dove è necessaria flessibilità da parte di tutti gli attori coinvolti.
  • Il docente diventa un conduttore del processo di apprendimento, un processo instabile e interattivo: io mi sento sempre a capo di un’esplorazione, dove sono l’esperta di qualche contenuto ma allo stesso tempo imparo insieme agli altri presenti con me.
  • La fatica dello stare in apprendimento davanti al computer: è un movimento ambivalente quello di espanderci stando fermi, di allargare le nostre possibilità stando seduti davanti a uno schermo, di esplorare il nuovo guardando sempre lo stesso panorama. Strano vero? Ma se lo sappiamo possiamo starci attenti, fare più pause e ascoltare di più il nostro veicolo corporeo (che ormai lo sappiamo che siamo un tutt’uno e il nostro cervello è incarnato nella nostra fisicità). Usiamolo questo corpo: con i movimenti, con le azioni, con l’uso di carta e pennarelli, con la respirazione consapevole e le posizioni più confortevoli e salutari.

Funziona sempre? 

No. 

Serve fare e creare senso, per noi e per il sistema di cui facciamo parte. Se il senso manca il processo di apprendimento non parte proprio, oggi più che mai serve “fare anima”  e senza quella tutte le strategie e la didattica miseramente non portano risultati.

Serve esserci nel fare. Serve la conoscenza e la presenza. Serve l’attivazione e la quietazione.

Tutto intero e integrato alla perfezione, in un momento completamente imperfetto.

Come sempre non è facile…ma qualcosa di bello qua e là sta emergendo.

E voi cosa avete imparato in questo periodo di trasformazione?