In questi giorni mi sembra che trasferire i miei pensieri e le mie riflessioni sul web e sui social li appiattisca: uno spazio troppo limitato per quello che mi trovo a pensare e troppa necessità intorno di arrivare a una definizione (quasi da stadio) di bianco/nero, giusto/sbagliato, pro/contro. Poco desiderio di reale confronto dialettico con chi la vede diversamente da noi, molto giudizio su quello che è distante dalla nostra visione: forse per motivi di tempo, desiderio, voglia, competenze, risorse, chi lo sa.
La cosa incredibile è che questa modalità viene applicata sempre, anche nelle relazioni e in contesti complessi e in movimento continuo. Quando diamo un giudizio tranchant su qualcuno che conosciamo poco o niente, o ci lamentiamo di qualcosa che non funziona senza fare niente per modificarlo davvero, o ci mettiamo nel ruolo della vittima del sistema.
In questi giorni ho assistito a degli scambi tra conoscenti che mi hanno colpita per superficialità, indelicatezza, inopportunità…solo per un desiderio di intrattenimento sulla sofferenza dell’altro. Ma quando abbiamo iniziato a parlare di esseri umani e dei loro sentimenti con una leggerezza maggiore di quella che usiamo per parlare di vestiti?!
Capisco che faccia un gran caldo e che la stanchezza abbia preso il sopravvento, ma davvero ci sono questioni che non possono essere iper-semplificate perché hanno tante sfaccettature e spesso anche sfumature sul tema.
Sfumature che ci incantano davanti a un tramonto sul lago in una bella serata ma ci lasciano perplessi se si manifestano nelle relazioni, nelle azioni che le persone compiono, nelle organizzazioni in cui lavoriamo. Eppure gli esseri umani e i sistemi viventi funzionano così: cambiano, con movimenti lenti e a volte non coerenti, a volte la direzione si confonde e si fanno errori, grazie a questo movimento impariamo ed evolviamo.
Vivo e navigo nella complessità come tutti, ma -forse!- da psicoterapeuta che lavora con le organizzazioni sono allenata a cogliere le incoerenze e i meccanismi di difesa che vengono attivati, a lasciare spazio ai dubbi e alle domande per comprendere i fenomeni, a guardare tra le luci e le ombre delle persone senza distogliere lo sguardo per il fastidio.
E mi chiedo: come tenere insieme le luci e le ombre con un mezzo di comunicazione che facilità solo la percezione del bianco e del nero? Come far cogliere le sfumature del reale? Le incoerenze della vita? La complessità della situazione, della persona, del momento?
Forse cominciando a nominarla e crearle un posto nella narrazione del quotidiano.
Accettando che non sempre possiamo controllare la vita, gli altri, il nostro corpo, il nostro mondo.
Tenere gli occhi aperti e tenere tutto insieme, anche e soprattutto quello che non vorremmo vedere.
E la realtà, da sempre: la tentazione di piallare le ombre con un filtro da social esiste ma basta uscire dal mondo patinato per ritrovarle tute le sfumature della vita.
Accettare la realtà, conoscerla, esplorarla, lavorarci e -quando possibile- trasformarla, magari in meglio. Mi hanno insegnato a pensare e a sporcarmi le mani, nella vita vera.
Ringrazio le esperienze vissute nella mia famiglia di origine che, per motivi professionali, ha sempre avuto a che fare con le luci e le ombre degli esseri umani: una nonna in una piccola sartoria a cucire abiti da sposa bianchi, un’altra in un manicomio con la divisa bianca da infermiera. Nella mia esperienza il bianco ha un doppio significato, figuratevi quante sfumature possono vedere nelle ombre: non riesco proprio ad appiattire le curve della realtà.
Senza scadere nelle cosiddette seghe mentali o nascondendoci dietro a riflessioni infinite: semmai dovremmo ambire ad attivare il processo del pensare la complessità, nel suo profondo senza semplificazioni eccessive e comode.
Facciamo così: quest’estate gustiamoci i tramonti con tutte le sfumature, è il miglior training possibile per stare nella complessità.